Idrope dell’orecchio interno: Cause. Sintomi. Terapia.

Per idrope endolinfatico si intende una condizione di aumento della endolinfa, liquido contenuto nell’orecchio interno ed  in particolare all’interno del labirinto membranoso, costituito dal canale cocleare, dal sacculo, dall’utricolo, dai tre canali semicircolari e dal dotto e sacco endolinfatico.

appvestibolare

L’idrope endolinfatico è riconosciuto da tutta la comunità medico-scientifica da moltissimi anni come il substrato patologico della sindrome di Ménière, definita come l’associazione, con caratteristiche particolari, di crisi di vertigine rotatoria (illusoria percezione di movimento o dell’ambiente rispetto al corpo o del corpo rispetto all’ambiente), acufeni soggettivi (percezione uditiva non organizzata in assenza di qualunque sorgente sonora), ipoacusia neurosensoriale (riduzione dell’udito per disfunzione dell’orecchio interno), fullness (termine inglese, generalmente tradotto in italiano come ovattamento, sebbene nell’uso clinico si preferisca utilizzare il termine inglese, corrispondente a un senso di pressione e/o chiusura dell’orecchio, non obbligatoriamente accompagnato a riduzione dell’udito).

La scoperta dell’idrope endolinfatico quale substrato anatomopatologico della malattia di Ménière sembra da attribuire a Joseph Gruber, otologo austriaco, che l’avrebbe prospettata già nel 1895, dopo che Prosper Ménière, medico francese, nel 1861, aveva attribuito all’orecchio interno l’origine dei sintomi compresi nella sindrome che in seguito prese il suo nome.

Oltre all’idrope endolinfatico esiste anche un idrope perilinfatico, legato ad aumento di pressione e volume della perilinfa, il liquido contenuto nel labirinto tra la parete esterna del labirinto membranoso e la parete interna del labirinto osseo. Anche l’idrope perilinfatico può procurare sintomi, ma è probabile, tenendo a mente l’anatomia e la fisiologia dell’orecchio interno che questi possano essere limitati a fullness, ipoacusia ed eventualmente ad acufeni, mentre non è possibile attribuire direttamente a un idrope perilinfatico le vertigini. Idrope perilinfatico ed endolinfatico possono coesistere. La parete membranosa che divide lo spazio perilinfatico e quello endolinfatico è infatti incapace di offrire qualunque reale resistenza all’aumento di pressione, mentre le pareti esterne dello spazio perilinfatico sono costituite da osso resistente.
Qualunque sia il compartimento nel quale inizialmente l’aumento di volume dei liquidi e quindi di pressione si è sviluppato , è quindi improbabile che un aumento di pressione nell’uno non comporti anche un aumento di pressione nell’altro compartimento. La diversa modalità di aumento della pressione endolinfatica, dall’interno, o per compressione dall’esterno potrebbe contribuire alla notevole variabilità dei quadri clinici derivanti dall’idrope e giustificare la maggior o minor resistenza a una terapia, seppur correttamente effettuata.

Definizioni utilizzate per la diagnosi

Idrope  endolinfatico e Malattia o Sindrome di Ménière non possono essere considerati sinonimi o definizioni intercambiabili poiché la prima rappresenta il substrato anatomopatologico della seconda, che si definisce per i suoi sintomi e non per la sua base anatomopatologica. In tutti i casi di Sindrome di Meniere è presente idrope ma non tutti i casi di idrope si manifestano o si manifesteranno in futuro come sindrome o malattia di Ménière.
Molti specialisti otorinolaringoiatri e audiologi concordano nel riconoscere che l’idrope può manifestarsi anche con sintomi incompleti non inquadrabili nell’ambito della sindrome di Meniere ed utilizzano generalmente per quadri clinici, a sintomatologia incompleta, la definizione, in realtà non corretta, di Meniere cocleare (quando mancano le vertigini), Meniere vestibolare (quando mancano sintomi uditivi quali acufeni e ipoacusia) o ancor più genericamente di “sindrome menieriforme”. La definizione idrope endolinfatico (o anche idrope) è raramente utilizzato nella diagnosi il che forse spiega come possa ancora essere dopo tanti anni ignoto o usato a sproposito a molti pazienti e perfino, purtroppo, a molti medici.  Il termine fu d’altronde proposto impropriamente all’inizio molti anni fa in quanto non si tratta in realtà di un vero idrope che per definizione è un accumulo di fluido trasudatizio in una cavità dove non dovrebbe essercene, quanto piuttosto un aumento del volume del liquido già fisiologicamente presente all’interno del labirinto. Per superare il problema anni fa personalmente coniai e diffusi la definizione più appropriata di  Disfunzione Idromeccanica Reversibile dell’Orecchio Interno, indicante in modo piuttosto chiaro la condizione creante i sintomi, e lasciando al termine Idrope il solo significato “grezzo” di eccesso di liquido, indipendentemente dal fatto che ne derivassero sintomi o meno. Ma alla fine, a livello popolare, ha preso il sopravvento anche con i miei pazienti definire questa condizione Idrope. L’importante è non pensare all’idrope solo in presenza di tutti i sintomi “da manuale” della Sindrome di Meniere.

I sintomi dell’Idrope

L’idrope oltre che manifestarsi con il quadro classico e tutti i sintomi della sindrome o malattia di Ménière, che peraltro possono fare la loro prima comparsa in epoche differenti,  permettendo di definire i tal modo il quadro clinico del paziente spesso solo a distanza di molto tempo dall’esordio dei primi sintomi, può dare origine anche solo ad uno o più degli stessi sintomi che compongono, se associati, la sindrome, o con varianti tradizionalmente non incluse nella sindrome stessa. E l’idrope asintomatico, se si accetta, come ormai accettato dalla comunità scientifica da tempo che l’esame più affidabile per la diagnosi dell’idrope sia l’elettrococleografia, è molto più frequente di quanto non appaia dalle statistiche che tengono conto solo di pazienti, visto che l’esame risulta alterato anche in moltissime persone che non riferiscono alcun disturbo.

Avere “idrope” non significa quindi avere un patologia o che questa inevitabilmente si manifesterà con dei disturbi, ma solo avere una condizione parafisiologica (al limite del normale cioè) che potrebbe evolvere o meno in una vera condizione patologica con dei sintomi successivamente, ma la frequenza stessa dell’idrope, la frequente sporadicità dei sintomi che si prestano spesso in modo del tutto occasionale e in modo non invalidante, e l’assenza di vere terapie preventive, rendono impensabile e del tutto illogico lo sfruttamento di questo dato o di esami diagnostici di screening per attuare strategie di prevenzione.

L’idrope creando una disfunzione idromeccanica nell’orecchio interno può dare origine a uno o più dei seguenti sintomi da questa direttamente derivanti, contemporaneamente o in epoche differenti.
L’insieme dei sintomi elencati costituisce la Sindrome di Méniére. Ufficialmente si può usare quest’ultima definizione diagnostica solo se il paziente “ha avuto nella vita almeno 2 attacchi di vertigine rotatoria oggettiva della durata di almeno 20 minuti”, oltre ad acufeni ed ipoacusia. 


  1. VERTIGINI

    – crisi rotatorie RECIDIVANTI oggettive spontanee
    – crisi parossistiche posizionali
    – disequilibrio soggettivo a crisi o cronico

  2. ACUFENI SOGGETTIVI  (bio-elettrici)

    – fluttuanti, non costanti, variabili
    – persistenti, invariabili, progressivi

  3. ALTERAZIONE DELL’UDITO

    – ipoacusia fluttuante, variabile, incostante
    – ipoacusia persistente invariabile o progressiva
    – disacusia e/o iperacusia

  4. FULLNESS
    (Sensazione di pressione o occlusione)


VERTIGINI

Tutte le forme di vertigini recidivanti a crisi, spontanee o posizionali, di qualunque durata e tipo,  e ogni situazione di disequilibrio soggettivo transitorio o persistente sono sempre dovute ad idrope.

Sono quindi da ricondurre all’idrope, secondo questa affermazione,  non solo crisi  recidivanti di tipo rotatorio-oggettivo spontanee della durata di almeno 20 minuti l’una come richiesto nella definizione classica della sindrome di Méniere, ma anche la vertigine parossistica posizionale scatenata in modo specifico da cambiamenti di posizione, tradizionalmente attribuite ad una patogenesi mai realmente dimostrata, la cupololitiasi, o disturbi soggettivi dell’equilibrio (disequilibrio soggettivo cronico). Le crisi rotatorie oggettive spontanee, che possono peraltro durare un tempo anche minore di quanto preso in considerazione dalla definizione ufficiale di sindrome di Meniere, sono la diretta espressione di un brusco aumento dell’endolinfa e del conseguente stimolo delle cupole dei canali semicircolari, i recettori che informano il cervello circa le accelerazioni angolari (ovvero di tipo rotatorio) della testa nei tre assi,  al fine di aggiustare automaticamente la posizione degli occhi, e l’equilibrio.

Le crisi posizionali parossistiche (vertigine posizionale parossistica benigna), tradizionalmente spiegate con lo stimolo diretto esercitato sulle cupole dei canali semicircolari, dal distacco e successivo movimento degli otoliti (concrezioni minerali presenti nelle macule del sacculo e nell’utricolo, i recettori  che informano il cervello sulla posizione statica della testa e sulle accelerazioni lineari, verticali e orizzontali), possono essere invece spiegate con lo stimolo asimmetrico che si esercita al momento del cambiamento di posizione del capo.  Infatti il movimento dell’endolinfa e il conseguente stimolo esercitato sui recettori dei canali semicircolari è asimmetrico,  e non,  come avviene fisiologicamente simmetrico e di direzione opposta (con un accoppiamento eccitazione-inibizione simmetrico) . L’unico sostegno noto alla teoria della cupololitiasi, seppur questa sia accettata da tutti, è quello dell’efficacia terapeutica di manovre di riposizionamento che riporterebbero gli otoliti in sede. Questo è totalmente impossibile in quanto la presunta sede da dove si sarebbero liberati e verso dove verrebbero riposizionato è una massa gelatinosa all’interno della quale è impossibile se non mediante immissione diretta chirurgica (cosa non realizzabile) riposizionare gli otoliti qualora questi ne fossero realmente fuoriusciti. Nonostante questa teoria sia accettata da tutti gli specialisti, non esiste, peraltro, un singolo lavoro scientifico di conferma dopo la prima entusiastica ipotesi formulata da Schuknecht nel 1969, ma solo lavori che partono dal presupposto che l’ipotesi sia indiscutibile verità citandola come base delle successive ricerche sull’efficacia delle manovre di riposizionamento proposte.

Ma è anche sempre dovuta all’idrope, e in questo caso agli effetti dell’asimmetria esercitata dall’eccesso di endolinfa sulle macule del sacculo e dell’utricolo, i recettori gravitazionali e di accelerazione lineare già menzionati,  la percezione di disequilibrio soggettivo (percezione di instabilità o sbandamento in assenza di vera instabilità o di vera perdita di equilibrio), più o meno invalidante nello specifico paziente anche a seconda del grado di attenzione prestata, e del tentativo di correzione del disturbo, a sua volta strettamente correlati allo stato psichico del paziente ed a componenti intimamente psichiche come ansia e ipocondria.

ACUFENI E IPOACUSIA

Gli acufeni soggettivi fluttuanti e l’ipoacusia neurosensoriale fluttuante qualunque sia la frequenza in Hz (altezza) dell’acufene percepito o qualunque sia la curva audiometrica dell’ipoacusia del paziente, sono sempre espressione di una disfunzione idromeccanica dell’orecchio e mai di danni permanenti irreversibili.

L’acufene soggettivo, ovvero la percezione di un segnale acustico di tipo non intermittente (fischio, ronzio, fruscio, sibilo, rombo ecc), indipendentemente dalle sue caratteristiche di durata, è sempre l’espressione di un segnale bio-elettrico generato nell’ambito dell’apparato uditivo ed in particolare nel tratto orecchio internonervo acustico. Non esiste alcuna sorgente sonora che produca meccanicamente (secondo le regole fisiche dell’acustica) il suono o rumore percepito dal paziente, ma una sorgente di segnale bio-elettrico che produce un segnale bio-elettrico, il quale viaggiando lungo le fibre del nervo acustico e passando per le stazioni intermedie delle vie acustiche centrali, giunge alla area acustica della corteccia cerebrale, dove viene percepito come segnale acustico.

La via seguita è d’altronde la stessa che percorre il segnale bioelettrico generato dall’orecchio interno in risposta ad un’effettiva stimolazione acustica realmente proveniente da una sorgente sonora esterna al nostro corpo. In condizioni fisiologiche, ovvero in presenza di una effettiva stimolazione acustica reale il segnale bioelettrico viene generato a livello della sinapsi tra cellule ciliate (i recettori dell’udito presenti nella coclea) e fibre nervose del nervo acustico in risposta alla stimolazione meccanica esercitata dai liquidi cocleari (a loro volta stimolati dalla vibrazione della membrana del timpano e della catena degli ossicini dell’orecchio medio), che sono in grado con il loro movimento di modificare il rapporto tra la membrana tectoria presente al di sopra delle cellule ciliate alla quale sono intimamente connesse le cilia delle cellule ciliate, e le cilia stesse.

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Ne conseguono in rapida sequenza il piegamento delle cilia, che a sua volta determina l’apertura di specifici canali sulla superficie apicale (quella rivolta verso l’interno del canale cocleare) delle cellule ciliate, il passaggio di elettroliti attraverso questi canali con conseguente modifica del potenziale elettrico della cellula (depolarizzazione), e il rilascio a livello della superficie basale, quella rivolta verso la sinapsi (connessione tra due neuroni – le cellule ciliate sono neuroni modificati) di un neurotrasmettitore, che liberato nella sinapsi, giungendo a contatto con la fibra del nervo acustico, determina la produzione del segnale bio-elettrico che poi, propagandosi lungo il nervo acustico e gli altri neuroni che costituiscono le vie uditive centrali giunge finalmente alla corteccia cerebrale, dove viene percepito a livello di coscienza.

L’acufene soggettivo, nella maggior parte dei casi, non è altro che la percezione del segnale bio-elettrico generato e propagato fino alla corteccia esattamente come avviene normalmente, ma in questo caso non in risposta ad  una stimolazione reale proveniente dall’esterno. Il piegamento delle cilia, che avviando i successivi passaggi sopra descritti determina quindi successivamente la percezione di un segnale acustico persistente è in questo caso, invece, determinato dalla pressione che l’eccesso di endolinfa esercita meccanicamente sulla membrana tectoria. Questo è il meccanismo con il quale l’idrope endolinfatico è in grado di generare la percezione di acufene soggettivo.

Sebbene al momento non sia stato confermato alcun altro meccanismo certo con il quale qualcosa diverso dall’idrope e dalla disfunzione idromeccanica da questo esercitata possa produrre un acufene soggettivo, è possibile che esistano anche meccanismi, quali danni permanenti a livello delle cellule ciliate, o una produzione autonoma, improbabile ma che non può ancora essere esclusa, a causa di danni a livello delle vie uditive centrali. Queste ipotesi alternative  comunque non potrebbero mai cause un acufene fluttuante o variabile. Il meccanismo dell’idrope sopra descritto è comunque sempre quello in causa quando l’acufene sia percepito in modo fluttuante, variabile, discontinuo, non costante.

Anche acufeni fissi, stazionari, invariabili posso essere comunque essere causati dalla pressione meccanica esercitata sulla membrana tectoria e quindi alla persistente stimolazione delle cellule determinata da un idrope persistente. Ma in questo caso, a differenza dell’acufene fluttuante, non esiste alcun modo per provare se la causa è davvero l’idrope, pur se sempre presente e confermabile con l’elettrococleografia, o eventuali danni permanenti a cellule e nervi, in questo caso possibili ma mai verificabili con esami diagnostici. La biopsia dell’orecchio interno, infatti, per verificare lo stato effettivo delle cellule ciliate, ne comporterebbe il danno irreversibile. In questo caso l’unico criterio possibile per confermare con certezza la responsabilità parziale o esclusiva dell’idrope resta l’effettiva reversibilità parziale o totale del sintomo alla specifica terapia anti-idrope. La mancata risposta alla terapia non può però al contrario confermare danni, che restano ipotetici e indimostrabili.

Infatti le cellule ciliate (che sono neuroni modificati) così come tutti i neuroni e le fibre del nervo acustico (anch’esse prolungamento di un neurone) sono cellule “perenni” (secondo la classificazione di Bizzozzero, 1894), ovvero non hanno capacità di generare nuove cellule per mitosi e non sono presenti cellule staminali indifferenziate in grado di riparare un eventuale danno permanente.

Un eventuale danno permanente, che resta quindi ancora oggi impossibile da dimostrare nel paziente, potrebbe solo quindi dare un acufene sempre uguale e sempre persistente (in assenza di competizione acustica esterna ovvero nel silenzio). Essendo accertato che quella causa (il danno delle cellule ciliate o delle fibre nervose) è irreversibile e immutabile in assenza di altri fattori in grado di modificare le cose, non attualmente noti, se effettivamente esistesse un rapporto causa-effetto con l’acufene, dovrebbe essere irreversibile e immutabile anche il suo effetto (l’acufene).

Quindi un presunto danno (sempre permanente e irreversibile) di cellule ciliate o neuroni può spiegare teoricamente un acufene fisso, stazionario, immutabile e persistente sempre con le stesse caratteristiche, ma non può comunque essere mai la causa di un acufene fluttuante.

Poiché nell’orecchio interno esistono solo cellule ciliate, fibre nervose e liquidi, l’esclusione delle altre due componenti, unita alla effettiva spiegazione fisica del meccanismo con cui l’idrope può generare l’acufene, permette quindi di essere certi del ruolo dell’idrope in tutti gli acufeni soggettivi fluttuanti o nelle componenti fluttuanti di questi, se comunque sempre presenti ma con caratteristiche di variabilità. La conferma diagnostica dell’elettrococleografia non è però sufficiente a porre questa diagnosi con certezza, in assenza di una valutazione delle caratteristiche del sintomo riferito, per l’elevata prevalenza dell’idrope nella popolazione, con conseguenti numerosi falsi positivi che possono confermare l’idrope anche quando questo non sia la reale causa sottostante il sintomo.

Il tipico acufene della Sindrome di Meniere, e quindi da idrope, comunque, stando a quello su cui tutti concordano è un acufene, almeno all’inizio, fluttuante, sebbene non sia assolutamente vero che un acufene esordito come persistente non possa essere dovuto ad un idrope persistente. Ciò nonostante la diagnosi è spesso misconosciuta in assenza di un quadro classico e tipico “da manuale” dei Malattia di Ménière con tutti i sintomi che la costituisco.

Dall’ idrope sono causati, con lo stesso meccanismo, ovviamente anche tutti gli acufeni transitori di breve durata, quali quelli da trauma acustico che si verificano all’uscita da un concerto o da una discoteca. La frequenza di questi acufeni transitori da idrope è tale da aver generato noti detti popolari a conferma di quanto l’idrope sia frequente.

Le stesse considerazioni valgono anche per l’ipoacusia neurosensoriale fluttuante, che può associarsi o meno ad acufene, o più raramente presentarsi come sintomo isolato senza acufeni.

Come sopra detto, infatti i danni permanenti delle cellule ciliate, se danno sintomi, posso dare solo sintomi invariabili e persistenti, per cui anche una ipoacusia (riduzione dell’udito) da disfunzione dell’orecchio interno deve essere inevitabilmente persistente se derivante da un danno a carico di recettori uditivi e/o nervi, necessariamente irreversibile, vista l’impossibilità di sostituire le cellule mancanti con nuove cellule ciliate, .

Ma anche in questo caso, non è vero il contrario, ovvero che ogni ipoacusia stazionaria e non fluttuante sia necessariamente riconducibile a un danno permanente e sia quindi irreversibile, come dimostra la reversibilità con opportuna terapia in molti casi, essendo possibile che il sintomo sia causato da una pressione persistente esercitata dai liquidi in eccesso sulle cellule ciliate.

L’ipoacusia da idrope, deriverebbe (ma questa ipotesi non è mai stata confermata a livello scientifico) dalla minor capacità di risposta della massa liquida aumentata di volume nei confronti della vibrazione trasmessa dalla staffa, probabilmente associata alla compressione esercitata sulle strutture dell’orecchio interno, con deformazione della sua fisiologica architettura funzionale. Generalmente si associa anche un notevole grado di disacusia o distorsione della percezione acustica, sintomo probabilmente derivante dalla stimolazione non selettiva, come invece avviene  in condizioni fisiologiche, a causa della massa aumentata del liquido in movimento (ipotesi non confermata). Anche il recruitment, termine con il quale si indica il ridotto intervallo tra soglia audiometrica (minimo volume  in decibel udibile) e soglia del fastidio (minimo volume in decibel in grado di essere avvertito “troppo forte” e quindi giudicato fastidioso in presenza di una stimolazione acustica proveniente dall’esterno) potrebbe spiegarsi con la resistenza al movimento esercitata da un massa di liquido aumentata, contro la stimolazione di più cellule di quante non ne dovrebbero essere fisiologicamente stimolate da quello specifico stimolo acustico esterno. Questa teoria personale, non supportata da studi scientifici, potrebbe spiegare la frequente presenza di iperacusia tra i sintomi riferiti dal paziente

Al momento nessuna altra teoria diversa da quella che riconosce il ruolo dell’idrope è in grado di spiegare una ipoacusia neurosensoriale fluttuante o meglio, come correttamente dovrebbe essere definita, una ipoacusia da disfunzione idromeccanica reversibile dell’orecchio interno, visto che gli elementi propriamente neurosensoriali, cellule ciliate e fibre nervose, sono in questo caso assolutamente intatti (o almeno non sono certamente responsabili dell’ipoacusia fluttuante) e non presentano alcuna lesione, che sarebbe incompatibile con fluttuazione  o reversibilità dell’ipoacusia.

La tipica ipoacusia della Sindrome di Meniere, e quindi da idrope, comunque, stando a quello su cui tutti concordano è un’ ipoacusia, almeno all’inizio, fluttuante, a crisi episodiche, sebbene non sia assolutamente la regola assoluta che una ipoacusia che esordisca già dall’inizio come non fluttuante non possa essere dovuta ad un idrope persistente. E generalmente la maggior parte degli specialisti riconosce, in questo caso, a differenza che per l’acufene, l’inequivocabile ruolo dell’idrope, definendo però erroneamente in assenza di vertigini nella storia clinica del paziente questa situazione come “Ménière cocleare” o talvolta “Sindrome menieriforme”, il che mantiene ed aumenta la confusione circa il reale uso corretto, nella pratica clinica e nella ricerca scientifica,  del termine idrope o come più propriamente andrebbe chiamato “disfunzione idromeccanica dell’orecchio interno”, con i suoi molteplici aspetti con i quali può presentassi o evolvere.

FULLNESS

La sensazione di orecchio chiuso e/o pressione nell’orecchio (fullness) è sempre dovuta a una di queste tre possibili cause: ostruzione del condotto uditivo esterno, ad esempio da tappo di cerume; accumulo di secrezione a densità variabile dell’orecchio medio (otite catarrale o sieromucosa, glue ear), o a un idrope endolinfatico o forse anche più spesso perilinfatico dell’orecchio interno.

Nei primi due casi però è inevitabile l’associazione con una ipoacusia trasmissiva di tipo meccanico,  (e non neurosensoriale), dovuta all’ostruzione del meccanismo di conduzione aerea dell’orecchio esterno, nel caso del tappo di cerume, o all’impedimento alla normale vibrazione della membrana del timpano.

Nel caso di percezione di orecchio chiuso (fullness) dovuta all’idrope (più probabilmente in questo caso alla pressione nel compartimento perilinfatico per aumento di perilinfa o per trasmissione della aumentata pressione endolinfatica), invece l’ipoacusia  può associarsi o anche mancare mentre è, di solito, riferito dal paziente un senso di pressione, di spinta avvertito all’interno dell’orecchio, più raramente riferito se il senso di occlusione è dovuto ad altre cause.

La diagnosi differenziale è comunque in questo caso molto semplice eseguendo un esame audiometrico e soprattutto un esame impedenzometrico (timpanometria, studio della motilità del timpano). Se la timpanometria mostra l’assenza di ostacoli alla normale mobilità della membrana timpanica, l’unica causa possibile di fullness resta l’idrope dell’orecchio interno.

LE CAUSE DELL’IDROPE E LE TERAPIE SPECIFICHE ANTi-IDROPE

Il meccanismo primario che porterebbe all’aumento dei liquidi labirintici non è ancora stato accertato nonostante molte ipotesi siano state formulate. Quelle attualmente più seguite sono il difetto di riassorbimento dovuto ad ostruzione del dotto endolinfatico e/o del sacco endolinfatici, che si ritiene essere la sede primaria di riassorbimento dell’endolinfa e l’eccesso di produzione da parte della cosiddetta stria vascolare. Che l’occlusione sperimentale del dotto endolinfatico possa portare a idrope è un dato certo e confermato, ma in patologia umana sono probabilmente implicati anche altri fattori.

Per spiegare l’uno e l’altro sono a loro volta state formulate numerose teorie, di cui alcune mai confermate da nessuno studio sull’orecchio e altre da scartare a priori per l’incongruenza con basi note ed inossidabili di anatomia e fisiologia umana. E le terapie derivanti da ipotesi impossibili si rivelano ovviamente inefficaci.

Tra quest’ultime certamente va inclusa l’ipotesi vascolare che prevede che l’idrope possa essere conseguenza di un blocco della microcircolazione ematica con conseguente mancato apporto di sangue e in particolare di ossigeno (ischemia, ipossia) Senza addentrarci ulteriormente, è un dato certo che  dopo soli 4-5 minuti di ischemia le cellule ciliate e i recettori vestibolari subirebbero un danno permanente e irreversibile, incompatibile con le caratteristiche dei sintomi fluttuanti certamente derivanti dall’idrope, fatta eccezione per eventuali acufeni e ipoacusie non variabili che, qualora fossero la conseguenza di danni permanenti da ischemia, non necessiterebbero certo dell’idrope come fattore intermedio essendo già sufficiente l’inevitabile ed irreversibile danno permanente sviluppatosi in conseguenza diretta dell’ischemia. Da questo ne consegue che tutte le terapie che puntano alla correzione della microcircolazione, quali vasodilatatori od emoreologici (fluidificanti del sangue) non hanno nessuna possibilità, nemmeno teorica di essere di qualunque ausilio o dare benefici.

Un ipotesi che attualmente sta prendendo piede, ma priva di alcun fondamento logico, è quella che rapporta l’idrope alla CCSVI (Insufficienza venosa cranio-cervicale). In realtà i sostenitori di un ruolo di malformazioni vascolari prenatali come la CCSVI mettono in rapporto quest’ultima direttamente alla sindrome di Meniere, ma senza affermare che l’anomalia vascolare causi l’idrope, attribuendo quindi un ruolo diretto nella genesi di tutti i sintomi  della Malattia di Meniere, senza assolutamente spiegare in che modo questo potrebbe accadere, pur se questi sono fluttuanti, variabili e a comparsa tardiva nella vita dell’individuo, cosa incompatibile con una anomalia vascolare prenatale non spontaneamente reversibile o variabile. Non risulta ancora applicata su larga scala la procedura chirurgica proposta per la CCSVI ai pazienti con Malattia di Meniere pertanto non è possibile conoscere l’eventuale efficacia  superiore al placebo, ma questa appare alquanto improbabile stando alle considerazioni di cui sopra.

L’ipotesi più suggestiva e finora l’unica supportata da conferme scientifiche e basi logiche  di fisiologia umana è invece quella che mette in relazione l’idrope con l’ormone antidiuretico (ADH, vasopressina, adiuretina). Nonostante la conferma, certa ormai da diversi anni (Beitz E. 1999 e numerose altre pubblicazioni) della presenza nell’orecchio interno di recettori specifici per l’ADH e di aquaporine, (canali proteici che modificherebbero la loro permeabilità in risposta all’interazione tra l’ADH ed i suoi recettori), e l’efficacia dimostrata da terapie specifiche che riducono indirettamente la produzione di ormone antidiuretico, l’esatto meccanismo che porterebbe all’idrope o all’insorgenza dei non è però ancora noto ed è probabile che questo risulti da più fattori associati quali ad esempio una ipersensensibilità all’azione dell’ADH e/o condizioni anatomiche favorenti, quali un ridotto riassorbimento a livello del sacco endolinfatico. Ormai accertato invece è il ruolo dello stress, come fattore favorente e di mantenimento o ricorrenza dei sintomi ed è certo che l’ormone antidiuretico è uno dei principali ormoni da stress del nostro organismo.

Una possibile spiegazione è che picchi non costanti di ADH (ormone sensibile soprattutto alla osmolarità plasmatica, ovvero alla carenza di liquidi, e allo stress, non solo psicogeno, ma anche di natura climatica o legata  ad altri fattori) determinerebbero una aumentata produzione a poussées di endolinfa nell’orecchio interno.  Quando la capacità di smaltimento e riassorbimento dell’eccesso dei liquidi si mantiene nella norma potrebbero comparire sintomi sporadici e occasionali, o  anche nessun sintomo, mentre la presenza di ostacoli al riassorbimento dei liquidi associati ad aumentata produzione potrebbero portare a disturbi più frequenti o duraturi o addirittura a disturbi stazionari.

Sulla base di questa teoria sono stati ideati trattamenti contro l’idrope che prevedono l’inibizione del rilascio dell’ormone antidiuretico mediante iperidratazione con una assunzione giornaliera di liquidi superiori alle normali esigenze medie dell’organismo e neurofarmaci per bloccare l’azione dello stress sul rilascio dell’ormone. Il trattamento specifico da solo o in associazione con altri trattamenti, quali l’impiego di cortisonici in grado di regolare le aquaporine, o l’uso di diuretici osmotici (mannitolo) per via endovenosa associato a una notevole iperidratazione, o dieta alimentare per favorire la distribuzione della acqua libera e aumentare il carico idrico disponibile per bloccare l’ADH si è rivelato di notevole efficacia su un numero elevato di pazienti. Ma questa terapia anti-idrope diretta al controllo dell’ADH è attualmente proposta esclusivamente da un solo medico, autore del presente testo.

Inspiegabilmente terapie che tengano conto dei rapporti tra ormone antidiuretico, orecchio e idrope, non trovano diffusione nella comunità medico-scientifica, nonostante siano già attuate e diffuse da anni e nonostante la numerosa produzione scientifica da parte di ricercatori in tutto il mondo circa il ruolo dell’ADH nell’idrope sperimentale. Farmaci specifici per bloccare i recettori dell’ADH (vaptanici, tolvaptan, conivaptan) sono perfino stati immessi in commercio già da qualche anno ma, nonostante la mole di lavori scientifici che ne confermano il possibile impiego per l’idrope e per la Sindrome di Meniere, questi non rientrano tra le indicazioni per le quali questi farmaci sono prescrivibili in nessuno stato del mondo.

Senza tenere in considerazione le numerose terapie prive a priori di alcuna possibile efficacia nei confronti dell’idrope e propagandate spesso solo a scopo speculativo per questa come per molte altre situazioni, quali  integratori, vitamine, aminoacidi, ricostituenti, rimedi omeopatici, e tutte le cure cosiddette “alternative”, agopuntura, osteopatia ed altro, aventi tutte in comune l’assenza di un meccanismo d’azione noto e che possa giustificare benefici diversi da un eventuale e comunque molto raro, effetto placebo o risoluzione spontanea non legata alla terapia, oltre ai già citati vasodilatatori e fluidificanti, i farmaci più comuni ancora oggi impiegati in modo specifico per l’idrope sono i diuretici per via orale.

Purtroppo questi, e l’ultima letteratura scientifica sembra anche iniziare a confermarlo, spesso si rivelano più dannosi che utili, e comunque privi di qualunque efficacia, visto che la loro azione specifica sull’orecchio è bassissima se non addirittura nulla, ma la loro azione diuretica a livello renale, dove inibiscono il riassorbimento dell’acqua in transito e quindi ne determinano una maggior eliminazione con le urine, è marcata, per cui possono portare a disidratazione se non compensati da un adeguato carico idrico con conseguente aumentato rilascio riflessa dell’ormone antidiuretico.

Nonostante la loro scarsa efficacia sia nota, sono ancora oggi, inspiegabilmente, tra i farmaci più prescritti in campo otorinolaringoiatrico, ormai più in altri Paesi e meno in Italia, in realtà, per il trattamento dell’idrope endolinfatico e della malattia di Meniere. Fino a qualche anno fa oltretutto all’impiego di diuretici veniva associata paradossalmente la restrizione idrica, con conseguenze perfino maggiori sull’udito, erroneamente attribuite ad evoluzione spontanea della ipoacusia dovuta alla patologia.

Molto diffuso è anche l’impiego di un altro tipo di diuretico, il diuretico osmotico, (mannitolo, glicerolo) che nonostante condivida la definizione relativa all’effetto più evidente (l’aumentata diuresi) con i diuretici per via orale, agisce con un meccanismo del tutto differente. Introdotte per via endovenosa direttamente nel sangue, queste sostanze ad alto peso molecolare attirano verso il sangue acqua dagli spazi interstiziali dei tessuti per osmosi (il liquido si sposta verso le soluzioni a maggior concentrazione) e questo è il meccanismo che poi porta all’effetto terapeutico per ulteriore inibizione dell’ADH e ovviamente alla maggior diuresi esattamente come avviene in modo molto più diretto e fisiologico per l’iperassunzione di acqua per via orale. Il loro uso, in particolare quello del mannitolo  è ben noto non solo come terapia dell’idrope ma anche in altre situazioni cliniche che richiedono una deplezione di liquidi. E’ possibile che il mannitolo abbia anche una azione depletiva diretta nei confronti dei liquidi dell’orecchio interno il che ne spiega la discreta efficacia soprattutto se effettuato rapidamente e associato ad una notevole iperidratazione.  La sola somministrazione di mannitolo  senza iperidratazione è raramente efficace se non occasionalmente a ridosso di un episodio acuto.

Per semplificare la procedura di somministrazione molti specialisti hanno iniziato già moltissimi anni fa a proporre l’assunzione di glicerolo, o urea, un altro diuretico osmotico, in soluzione acquosa o alcolica, per via orale. Ma come è facilmente comprensibile, se si considera che l’assorbimento reale a livello intestinale è minimo e la sostanza viene introdotta nel tubo digerente e non nel sangue dove servirebbe, non è certo possibile ottenere risultati paragonabili a quelli della somministrazione endovenosa.

Vanno inoltre menzionate le terapie meccaniche che puntano a spingere meccanicamente il liquido in eccesso verso il suo presunto punto di riassorbimento.

Una delle più note è un dispositivo, purtroppo dal costo piuttosto elevato, proposto allo scopo di inviare degli impulsi pressori in rapida frequenza all’orecchio interno attraverso l’orecchio esterno e l’orecchio medio. L’uso del dispositivo prevede però l’effettuazione di un piccolo intervento chirurgico per l’applicazione di un tubicino di ventilazione nella membrana del timpano. I pareri circa l’efficacia reale come unica terapia sono molto discordanti, ma il principio è  molto logico e ha un suo razionale indiscutibile. Purtroppo il costo al paziente davvero elevato e l’esigenza di una procedura chirurgica preliminare per quanto spesso ambulatoriale, ne ha sempre impedito l’uso su larga scala e la reale verifica dei suoi effetti, se non in studi commissionati direttamente dall’azienda produttrice che ovviamente sono, anche solo per questo, da considerare non affidabili.

Un metodica basata sullo stesso principio ma alla portata di qualunque paziente si basa su un principio analogo, sostenuto anche dalla riduzione o addirittura scomparsa seppure transitoria riferita da molti pazienti, durante o in seguito a manovre di compensazione e autoinsufflazione. Prevede l’uso di un palloncino calibrato per effettuare autoinsufflazioni. Il dispositivo nato per il trattamento dell’otite catarrale dell’orecchio medio inizia ad essere conosciuto e proposto da diversi specialisti anche per l’idrope. La sua efficacia sembra essere discreta, anche nella mia personale esperienza, ma difficilmente può essere proposto come unica terapia.

Sullo stesso principio si basa la documentata ma non costante efficacia dei trattamenti in camera iperbarica, dove il paziente viene esposto ad una pressione ambientale superiore a quella atmosferica abituale. Quel che è difficilmente comprensibile è che, nonostante sia ovvio che gli eventuali benefici quali la scomparsa dell’acufene o il recupero di una ipoacusia siano dovuti alla regressione di una condizione reversibile, la maggior parte dei medici che la prescrivono e purtroppo anche la maggior parte dei medici che lavorano in centri iperbarici sono ancora convinti che la sua efficacia consisterebbe nel superare l’ostacolo a livello della microcircolazione causante l’ischemia portando ossigeno ad alta pressione verso l’orecchio interno, cosa che non potrebbe mai agire sulle cellule ciliate e sul loro danno irreversibile sviluppatosi già, se veramente ci fosse stata una ischemia, dopo 4-5 minuti dal blocco della circolazione. E nemmeno è possibile ipotizzare che passi ossigeno ad alta pressione attraverso una ipotetica riduzione (blocco parziale, che non esiste) della circolazione. Per legge fisica il sangue passerebbe lo stesso in un vaso ristretto, solo con aumento della sua pressione spontanea. Quindi in pratica, nonostante la camera iperbarica possa essere efficace solo in caso di idrope, è riconosciuta come terapia per presunte alterazioni della microcircolazione ma non per l’idrope.

Dove, come in Italia, la terapia, altrimenti costosa, è proposta in regime di convenzione con la regione, si crea per questo motivo una situazione davvero incomprensibile. Una ipoacusia improvvisa da presunto blocco della microcircolazione viene accettata purchè nel giro di qualche settimana (quando in tal caso già sarebbe tardi dopo 4-5 minuti, come già detto) mentre a pazienti con idrope certo che potrebbero trovarne probabile beneficio la cura viene rifiutata se non se effettuata interamente a carico del paziente.

Infine è necessario citare una procedura chirurgica che nella sua logica si presenta come la più ovvia delle soluzioni: l’apertura e l’inserimento mediante intervento chirugico di una valvola nel sacco endolinfatico, ovvero là dove si presume debba avvenire il riassorbimento dei liquidi. In tal modo l’aumento della pressione dell’endolinfa verrebbe immediatamente (in teoria) smaltito attraverso la valvola. La procedura prende il nome di drenaggio del sacco endolinfatico. La procedura chirurgica purtroppo non è immune da possibili complicanze anche gravi, non solo a carico dell’udito ma anche maggiori, seppur rare. Per raggiungere il sacco racchiuso in uno sdoppiamento della meninge bisogna infatti raggiungere questa. Ma il vero problema è che questa procedura proposta per primo da Georges Portmann nel 1926, nella maggior parte dei casi riesce a dare benefici sulle vertigini, ma in misura molto minore sull’udito e sull’acufene, che spesso anzi ne risultano aggravati. In generale peraltro le statistiche riportano dati molto discordanti e nonostante la sua logica intrinseca ineccepibile i risultati si sono rivelati molto inferiori alle logiche aspettative. O meglio, si trattava di una soluzione accolta con entusiasmo quando si credeva che comunque l’udito non fosse in alcun modo salvabile e per l’acufene non ci fosse alcuna terapia possibile, con il solo scopo, quindi, di prevenire le crisi di vertigine, nonostante anche per questo sintomo l’efficacia non sia sempre stata pari alle aspettative. In particolare, per quanto riguarda i risultati a lungo termine probabilmente a causa della chiusura successiva del drenaggio o di fibrosi cicatriziale.
Alla procedura originale sono state apportate diverse modifiche, alcune che l’hanno resa forse più efficace ma più rischiosa, altre che si limitano ad effettuare una decompressione estrinseca senza alcun drenaggio che verosimilmente, se ne hanno, hanno efficacia molto minore.
Ad ogni modo come autore di questo testo non posso riferire altro che esperienze altrui poiché  si tratta di un procedura da me mai applicata nonostante il mio background chirurgico, in quanto già universalmente abbandonata quando iniziai ad occuparmi di otologia e chirurgia otologica, e solo in anni più recenti riproposta con maggior diffusione in alcuni centri.

Dott. Andrea La Torre
Specialista in Otorinolaringoiatria

Per contatti e richieste di consulenza accedere al mio sito www.drlatorre.info

12 pensieri riguardo “Idrope dell’orecchio interno: Cause. Sintomi. Terapia.

  1. buon giorno, sono un medico chirurgo odontoiatra, e ho tutti i sintomi come da lei descritti dell’idrope dell’orecchio interno, che durano ormai da 2 anni. Ho pensato ad una eventuale eziologia , “,potrebbe una sclerotizzazione timpanica “, fare venir meno
    il fisiologico movimento sulla finestra ovale e quindi influenzare la pressione linfatica dell’orecchio interno? Grazie e Le faccio i complimenti per il testo da lei scritto , perché è chiaro e condiviso.

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    1. Non so perchè questa messaggio non sia mai stato approvato… a me non risultavano commenti in sospeso e ora trovo questo di gennaio…. In teoria quel che dice non è sbagliato ma in pratica non lo credo possibile… se la finestra rotonda non si muovesse ci dovrebbe essere una importante sordità permanente perchè non potrebbe esserci movimento dei liquidi

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  2. Considerando il problema degli acufeni non fluttuanti, non rispondenti alla terapia antiidrope, se ho ben capito dovrebbero essere dovuti ad un danno (morte?) di cellule ciliate. Dato che se una cellula è morta non risponde più agli stimoli esterni, verrebbe da pensare che gli acufeni di questo tipo derivino da un’apertura costante e non più controllata degli specifici canali sulla parte apicale, altrimenti l’alternativa sarebbe la non trasmissione del segnale, ovvero sordità. Corretto? Esistono studi in tal senso?

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    1. Sinceramente non ci ho capito molto, ma l’acufene fluttuante è daidrope e risponde alla terapia anti-idrope… Ed escludo che sia un danno permanente… a generare un acufene fluttuante. Ovviamente la terapia per funzionare richiede che sia fatta in una certa maniera…

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  3. Sono un medico omeopata e trovo molto interessante la sua tesi riguardo alla sindrome di Ménière! E in particolare riguardo alla vertigine parossistica posizionale benignama (VPPB)! Mi sembra che questa spiegazione renda tutto più razionale. Quello che mi piacerebbe capire riguardo alla VPPB se noi consideriamo l’idrope endolinfatico come causa perchè le manovre liberatorie sono risolutive? In che modo queste manovre possono risolvere l’idrope?
    Grazie e complimenti!
    Dr Salvatore Cavallo

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    1. A parte che non sono risolutive sempre e che comunque ci possono lo stesso essere recidive… la risposta è non lo so!

      Certamente però non riportano otoliti dispersi su una macula ricoperta da una massa gelatinosa che se anche si fosse aperta e avesse lasciato fuoriuscire otoliti poi comunque si sarebbe anche richiusa..

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  4. SONO L’ARCH. ROCCA FRANCESCO, IL MIO RUMORE ALL’ORECCHIO SINISTRO E’ COMINCIATO CIRCA 5 ANNI FA, IN QUESTO PERIODO NOVEMBRE 2018 , E’ DIVENTATO UN RUMORE FORTE E COSTANTE 24 ORE AL GIORNO , MI SONO RIVOLTO DA MOLTI ESPERTI ( PURTROPPO NON CI SONO SOLUZIONI) QUESTO E’ IL RESPONSO- VORREI TROVARE UN SOUZIONE CHE MI ALLEVIASSE QUESTO GRAVE DISTURBO , CHE MI STA FACENDO PERDERE LA SENSIBILITA’ UDITIVA,

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  5. Salve dott. La Torre soffro di idrope ho fatto le punture intratimpaniche e per due anni sono stato bene poi pensando che ero guarito ho cominciato a mangiare di tutto ed ecco le vertigini cosa mi consigliate di fare. Grazie

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